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Nuove regole in Europa per rilanciare l'economia

L'iniziativa di Silvio Berlusconi per una riforma del Patto di stabilità che consenta all'Europa di crescere e di svilupparsi è sempre più condivisa da molti governi dell'Unione.

Il Patto così com'è non ci ha aiutato a superare la difficile congiuntura economica. L'Europa non può accettare che la sua economia viaggi a meno della metà dell'economia Usa. Se le regole non funzionano, vanno cambiate.

Il governo Berlusconi si batterà per fare in modo che le regole dell'Europa generino una economia più libera e più dinamica, che incoraggi investimenti e consumi, che dia più benessere e dunque più libertà ai cittadini e alle imprese.

Il Patto fu concepito originariamente come "di stabilità e crescita" in grado di consentire all'Unione europea di diventare un soggetto sempre più forte sulla scena mondiale.

Quanto alla stabilità, che avrebbe dovuto essere assicurata dal rispetto del limite del deficit al 3% sul Pil, da tre anni questo limite è stato violato dalle due più forti economie dell'Ue, quella della Francia e quella della Germania, che pure avevano voluto quel limite.

Dal punto di vista economico, la scelta del 3% (insieme alla scelta del 60% per il debito pubblico sul Pil) fu del tutto arbitraria, e tale resta.

Poiché quel limite è stato violato, i casi sono due: o è sbagliato in modo intrinseco - vale a dire che le economie europee più forti non sono in grado di rispettarlo - oppure non è sostenibile per ragioni estrinseche: nel caso specifico, le conseguenze sull'economia mondiale dell'11 settembre.

Sia nel primo sia nel secondo caso, il limite va rivisto o reso più adattabile alla congiuntura economica.

In realtà il Patto è del tutto inefficace per la crescita e garantisce esclusivamente la stabilità della moneta.

Questo è ciò che è esattamente avvenuto in Europa da quando il Patto è in vigore. La moneta è stabile, l'inflazione è bassa, i tassi sono più alti che altrove e la crescita dell'area euro è ferma.

I governi, alle prese con i vincoli di bilancio, non hanno margini larghi necessari a ridurre in maniera significativa la tassazione su lavoro e investimenti.

E poco possono per riformare la struttura della spesa. Gli investimenti in ricerca, infrastrutture e formazione sono limitati perché il Patto non consente di ammortizzarli nel tempo. E la spesa assistenziale può essere ridotta solo con programmi graduali a medio e lungo termine, perché altrimenti si scatenano reazioni sociali e politiche tali da bloccare l'azione di risanamento.

Non a caso l'Europa, che accanto al Patto di stabilità aveva concordato l'agenda di Lisbona per le riforme e la competitività entro il 2010, ha scelto di accantonare quest'ultima per rispettare il primo.

Nessuno in Europa vuole tornare alla moltiplicazione del debito degli anni '80. Ma la riduzione del peso dello Stato, la riforma della spesa pubblica e la crescita degli investimenti in infrastrutture e conoscenza devono poter contare su margini di manovra sul deficit in linea con il ciclo economico. Se il ciclo è in fase di crescita, il vincolo al deficit potrebbe essere anche più rigoroso; se il ciclo è nella fase di stagnazione, è legittimo allargare il deficit, magari a condizione che l'abbattimento dello stock di debito prosegua attraverso lo scambio tra debito e patrimonio dello Stato, cioè attraverso le privatizzazioni.

Un Patto che segua il ciclo economico e che valuti la media del deficit in più anni, incentivi comunque le privatizzazioni e gli investimenti in infrastrutture e conoscenza, e che offra un vantaggio maggiore alla riduzione delle tasse piuttosto che alla permanenza di un welfare troppo oneroso potrebbe fregiarsi del titolo di Patto per la crescita. Perché è certo che quello attuale queste cose non le fa.