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L'intervento del Ministro dell'economia e delle finanze

Intervento del Ministro dell'economia e delle finanze Domenico Siniscalco al Senato delle Repubblica il 16 dicembre 2004

Signor Presidente, onorevoli senatori, desidero innanzitutto ringraziare la Commissione bilancio per il lavoro svolto sul testo della legge finanziaria e l'Assemblea del Senato per il dibattito che ha occupato gli ultimi due giorni e che ha offerto elementi di approfondimento, di critica e di suggerimento.

La discussione sui cambiamenti introdotti in Commissione ha ovviamente attratto l'attenzione nel dibattito degli ultimi giorni; pertanto, oggi, prima del voto di fiducia, è doveroso che io replichi ai numerosi interventi, tutti interessanti, e, soprattutto, che ricomponga i vari elementi del provvedimento in un quadro d'insieme che ne offra una visione complessiva.

Permettetemi, prima di tutto, una premessa. Quella che il Senato si accinge a votare è una legge finanziaria quantitativamente imponente e strutturale per la dimensione dei flussi coinvolti ed è guidata da due princìpi chiave: la stabilità dei conti e una minore invasività dello Stato nell'economia e nella vita dei cittadini.

Per argomentare queste affermazioni di principio mi sia concesso di entrare nel dettaglio e di dividere la mia replica in tre parti legate tra loro: la base di partenza della legge finanziaria, su foto: il ministro Domenico Siniscalcocui mi soffermerò ovviamente molto in breve, la ricostruzione del quadro d'insieme del provvedimento per come si è andato costituendo fino ad oggi e la collocazione di questa legge finanziaria e del bilancio nella politica economica e, in generale, nella visione che il Governo ha del Paese, che si trova indubbiamente nel mezzo di un profondo processo di transizione.

Ogni legge finanziaria può essere giudicata da più punti di vista: dal punto di vista economico, da quello finanziario, da quello politico e, fondamentalmente, dal punto di vista del cittadino elettore. Nel replicare, cercherò di analizzare il provvedimento in modo sintetico, tenendo di volta in volta conto di tutti questi diversi punti di vista.

Cominciamo dalla base di partenza della legge finanziaria. In una legge finanziaria la costruzione del quadro tendenziale dell'economia, e soprattutto del quadro tendenziale della finanza pubblica, credetemi, è metà dell'opera. Se questo quadro è credibile e trasparente, tutto l'esercizio di formazione del bilancio è costruito su una base solida. Al contrario, se non lo è, rischia di avere fondamenta discutibili.

La costruzione di un quadro tendenziale trasparente, fatta in luglio e riproposta in settembre, non è stata un'operazione semplice, ma ci ha consentito di disegnare un aggiustamento ingente e credibile: 24 miliardi di euro, pari all'1,7 per cento del PIL, rispetto alle tendenze spontanee che si andavano manifestando in quel momento nel bilancio pubblico. Attenzione: come abbiamo spesso ripetuto, questo aggiustamento si riferisce al tendenziale. Rispetto all'anno 2004, cioè rispetto all'andamento storico dell'economia, esso è molto più limitato, e vedremo tra breve quanto. Ma sicuramente in assenza di questo intervento il deficit sarebbe salito fino al 4,4 per cento del PIL.

Partendo dal tendenziale, la legge finanziaria presentata in settembre era stata disegnata attraverso un meccanismo trasparente, equidistribuito, ma soprattutto semplice da capire, nei rapporti tra i Ministeri e con le altre amministrazioni. Per fare questo, ci eravamo innanzitutto concentrati esplicitamente sui conti della pubblica amministrazione (non soltanto dello Stato), cioè sul perimetro e sul parametro rilevanti per l'Europa e per i mercati.

Partendo da lì, abbiamo utilizzato tre strumenti chiave, la cui principale caratteristica - ripeto - era la semplicità. Abbiamo applicato un tetto del 2 per cento all'aumento della spesa pubblica, ovviamente con alcune eccezioni legate ai diritti soggettivi e alle priorità; abbiamo operato una manutenzione della base imponibile in cui alcuni condoni e misure una tantum andavano sostituiti con misure di carattere strutturale; abbiamo introdotto esplicitamente una regola importante per una gestione sana della finanza pubblica, la cosiddetta "regola aurea" o golden rule, in base alla quale il bilancio corrente sia in pareggio e tutto il nuovo debito serva a finanziare unicamente gli investimenti.

Questa parte della legge finanziaria di settembre è la base di partenza su cui poi il Governo ha costruito il taglio fiscale, che è pienamente coperto non soltanto in base all'articolo 81 della Costituzione italiana, ma anche in base a criteri europei e di mercato. Insieme al programma di privatizzazione degli attivi patrimoniali dello Stato, la riduzione delle tasse è l'aspetto più significativo di natura economica e - aggiungo - anche politica, del programma del Governo Berlusconi. La riduzione delle imposte, al di là dei possibili effetti espansivi, rappresenta una visione di politica economica che ha, appunto, una valenza politica, come fin dall'inizio dell'economia classica i grandi padri della nostra disciplina hanno sempre dimostrato (non a caso, erano filosofi ed economisti insieme).

L'emendamento 1.2000, oggi all'esame dell'Aula, incorpora anche l'inevitabile pragmatismo che caratterizza tutte le leggi finanziarie, che per un Ministro dell'economia senz'altro non è agevole da sopportare, e che deve far riflettere sulla necessità di riformare questo strumento (non certo di abolirlo!), in linea con le migliori pratiche che prevalgono nei Paesi avanzati.

Dall'approvazione del DPEF l'estate scorsa, alcuni elementi del quadro macroeconomico su cui abbiamo costruito la nostra legge sono migliorati, altri sono invece peggiorati e in maniera anche vistosa.

È peggiorato progressivamente il contesto delle variabili economiche esogene, quali il tasso di cambio tra euro e dollaro e il prezzo del petrolio. A luglio, avevamo un tasso di cambio euro-dollaro dell'1,22, mentre oggi questo è superiore all'1,33-1,34; il petrolio - cito il Brent, che è la qualità più diffusa - era a 37 dollari al barile ed è salito fino a 45 dollari, per poi fortunatamente decrescere fino a 41 dollari. Tutto ciò, evidentemente, da un lato danneggia la competitività della nostra industria e, dall'altro, anche tramite questo canale esercita una pressione al ribasso sulle prospettive di crescita.

Per converso, è migliorata di molto l'inflazione, e non soltanto in termini assoluti, dal momento che per la prima volta è più bassa rispetto all'inflazione europea. Questa per la competitività è una buona notizia.

Migliora la crescita del PIL nel 2004 rispetto alla previsione di luglio, pari all'1,2 per cento; ritengo di poter dire, con qualche confidenza, che probabilmente salirà intorno all'1,4 per cento per fine anno. Sono decimali, non sono grandi numeri; però, ciò significa che la base di partenza per il PIL del 2005 in termini nominali è più elevata di quella prevista nel quadro tendenziale.

Nel terzo trimestre 2004, peraltro, il nostro Paese è quello che cresciuto di più nell'Europa dell'euro: confrontando i trimestri e usando un dato destagionalizzato, l'Italia è cresciuta dello 0,4 per cento contro lo 0,1 per cento della Francia e della Germania e lo 0,3 per cento medio dell'Europa a dodici.

Questo è un punto importante. Tale aumento di natura congiunturale, che andrà spiegato e che probabilmente verrà riassorbito nel prosieguo del ciclo, è avvenuto nonostante nel terzo trimestre dell'anno ci sia stata (per la prima volta, da quando io ricordi le statistiche) una riduzione della spesa pubblica per acquisto di beni e servizi come componente del PIL: si è avuta una diminuzione del 3 per cento in valori correnti e del 2,6 per cento in valori costanti, secondo i conti trimestrali dell'ISTAT.

Con ciò voglio dire che il controllo della spesa (seppure doloroso e con tutte le imperfezioni che conosciamo e siamo pronti a riconoscere) messo in campo dal luglio di quest'anno in avanti ha prodotto risultati visibili anche nella contabilità nazionale. Sul piano dei conti pubblici, peraltro, si registra - e questo è un dato che al Tesoro interessa molto - un netto miglioramento nel controllo dei flussi di cassa; quella di prima era una variabile di competenza, una variabile economica. Si è ridotto, infatti, in modo vistoso il differenziale cumulato nel fabbisogno finanziario del settore statale del 2004 rispetto al 2003 (mi riferisco, in poche parole, agli esborsi meno gli introiti, mese per mese e settimana per settimana). Pensate che questo cuneo tra il valore del 2004 e quello del 2003 si era allargato, fino a raggiungere circa 12 miliardi nel 2004 rispetto al 2003, nel mese di luglio. Nel mese di novembre, si è ridotto a 2,3 miliardi e immaginiamo che nel mese di dicembre resti pari o continui a ridursi. Si è avuta, in sostanza, una riduzione del divario (quindi un miglioramento, in parole semplici) di 10 miliardi di euro in cinque mesi: lo considero uno sforzo poderoso, di notevoli dimensioni, che non ha ingenerato contrazioni nell'attività economica, quanto meno nel terzo trimestre, a riprova che nell'economia le variabili non si muovono in modo né automatico, né idraulico, ma la vita è sempre più complessa di come appare a prima vista.

Inoltre, per quanto riguarda i conti del mese di dicembre, di cui non disponiamo, il condono edilizio sta producendo il gettito previsto e l'autotassazione, secondo i primi dati, è in linea con le previsioni. Grazie all'andamento del fabbisogno finanziario appena descritto, abbiamo potuto cancellare le emissioni di titoli di Stato di fine anno (altra cosa che non avevamo fatto in precedenza). Inoltre, dovremmo - uso il condizionale - chiudere l'anno con un rapporto tra debito e PIL migliore di quello previsto e promesso nel programma di stabilità approvato dalla Commissione europea in marzo.

Gli spread (i differenziali tra i tassi di interesse nazionali e tedeschi) sui BTP e i Bund a dieci anni, che sono l'indicatore più immediato della fiducia dei mercati, continuano a stringersi, indicando che gli investitori che ogni giorno mettono i loro soldi e la loro fiducia sul nostro debito pubblico, che supera il 100 per 100 del PIL, assegnano un voto di credibilità al nostro Paese.

Naturalmente, le difficoltà della nostra economia ci sono tutte e permangono e attengono alla competitività e al potere di acquisto; mi ci soffermerò alla fine. Non voglio presentare un quadro roseo, ma solo osservare che, rispetto a quanto era previsto in luglio, molto è già stato messo a posto.

Veniamo alla parte oggi più rilevante: la ricostruzione del quadro di insieme della finanziaria su cui il Governo pone la fiducia.

Le modifiche anche profonde alla finanziaria varata in settembre non cambiano, né ovviamente potrebbero cambiare, i saldi per il 2005: il saldo corrente aumenta dello +0,1, l'avanzo primario del 2,4, il deficit (o meglio, l'indebitamento netto) diminuisce del 2,7; ci sono poi, naturalmente, tutti i dati sul bilancio statale.

Anticipo, dal programma di stabilità che abbiamo presentato in Europa, che la sensibilità di questi risultati al ciclo economico ci consente comunque di restare sotto il 3 per cento, anche in presenza di oscillazioni piuttosto marcate del prodotto interno lordo. Cambia invece, ovviamente, la composizione dei grandi aggregati che costituiscono la finanziaria, la cui analisi è di fondamentale interesse. A questo proposito, vorrei offrire dei dati (su cui abbiamo lavorato fino a ieri sera) che mi sembrano interessanti da un punto di vista generale e che ricostruiscono il quadro d'insieme cui accennavo.

In primo luogo, la spesa pubblica complessiva scende di oltre 12 miliardi rispetto al tendenziale e si assesta al 47,4 per cento del prodotto interno lordo del 2005, contro il 48,4 per cento del 2004 (un punto di PIL di riduzione), pur aumentando in termini assoluti e in termini reali, ma perché aumenta meno di quanto aumenti il prodotto interno lordo.

La spesa corrente, comprensiva degli interessi, si assesta al 44 per cento del PIL 2005, contro il 44,9 del 2004.

Le cessioni di attivi validi per il deficit sono pari a sette miliardi, come concordato con la Commissione. Le una tantum decrescono, anche grazie alla fine della stagione dei condoni.

Nell'insieme (e vengo alle imposte), la pressione fiscale scende dal 41,8 per cento del 2004 (versione DPEF: sapete che sono sempre indicatori convenzionali su cosa si include e cosa si esclude) al 41,2 per cento del 2005. Scende, dunque, di mezzo punto di PIL (anzi, di oltre mezzo punto di PIL, in quanto il valore è di 0,6), nonostante il fatto che si siano dovute sostituire le entrate da condono, che non figurano nel calcolo convenzionale della pressione fiscale. La pressione tributaria in senso stretto, invece (le tasse), a sua volta scende dal 28,6 al 28 per cento del PIL. Naturalmente, tutto ciò è la risultante delle diverse componenti che producono il gettito complessivo.

Tra le spese pubbliche, non sono state ridotte rispetto al PIL quelle per le pensioni, per la sanità e per la scuola. In corso d'anno, già nelle prossime settimane, sono previsti alcuni ulteriori aggiustamenti sulla spesa per la sicurezza, che - lo riconosco - probabilmente è stata troppo sacrificata.

Sono inoltre previste risorse aggiuntive per il contratto del pubblico impiego. L'avanzo primario non cambia: è sempre al 2,4.

Veniamo ora alla riforma delle imposte in maggior dettaglio. Una riforma fiscale, in tutti i principali Paesi, non è un atto singolo, ma fa parte di un processo che si sviluppa nel tempo. Così è stato per la riforma fiscale americana operata dai repubblicani o per la riforma fiscale inglese. Si procede per moduli.

Nel nostro caso, si è iniziato nel 2002, aumentando fino a 516 euro le detrazioni per i figli, con un incremento dell'81 per cento. Ne hanno beneficiato 9,5 milioni di contribuenti con carichi di famiglia e l'ammontare dello sgravio è pari ad oltre 2 miliardi di euro.

Nel 2003 si è proseguito con il primo modulo della riforma IRE (l'ex IRPEF, per intenderci), che ha accorpato le due aliquote più basse e introdotto la cosiddetta no tax area: 28,6 milioni di contribuenti, con redditi medio-bassi, hanno beneficiato di uno sgravio fiscale valutato ex post in 6 miliardi di euro. Il primo modulo ha portato da 7,1 a 13,2 milioni il numero dei soggetti esenti dal pagamento delle imposte.

Nel 2005, sulla base del secondo modulo, oggi sottoposto al voto, si riducono ulteriormente le aliquote (23 , 33 e 39 per cento, con un contributo di solidarietà del 4 per cento per i redditi al di sopra dei 100.000 euro). Aumenta la no tax area selettivamente, laddove è maggiore il bisogno: famiglie numerose e a basso reddito. Le detrazioni per carichi di famiglia sono infatti trasformate in deduzioni decrescenti al crescere del reddito e sono significativamente potenziate nel loro ammontare. I beneficiari della riduzione sono 15,6 milioni: oltre il 62 per cento di tutti coloro che nel 2004 hanno pagato imposte e che non avevano beneficiato del primo modulo. Il secondo modulo IRE comporta, a sua volta, sgravi per 6 miliardi a regime.

Nel complesso, per quanto riguarda l'imposta sul reddito, dal 2001 i contribuenti favoriti dall'azione del Governo sono stati 31,1 milioni; nessuno ha subito aggravi, anche per l'operare delle clausole di salvaguardia. Dal 2001 è raddoppiato il numero dei soggetti che hanno smesso di pagare le imposte: da 6,8 a 13,5 milioni; oggi, un contribuente su tre non pagherà più le imposte sul reddito. L'entità complessiva dei tre sgravi supera un punto del PIL.

Passo ora ad analizzare nel dettaglio l'emendamento 1.2000. È una riforma che dà alla famiglia, soprattutto a quella monoreddito, e che non dimentica - con la speciale deduzione per le badanti e soprattutto con il forte incremento delle deduzioni per altri familiari a carico; in particolare, gli anziani non autosufficienti dal punto di vista fisico, nel caso della badante, ma anche il cosiddetto nonno a carico - il disagio degli anziani. Per un dipendente con coniuge e due figli a carico la no tax area sale fino a 14.000 euro.

Il meccanismo delle deduzioni decrescenti permette di concentrare gli sgravi laddove è maggiore il bisogno e assicura la progressività dell'imposizione. Anzi, in tutti i moduli, per ciò che riguarda l'IRE dal 2001 ad oggi, l'indice di progressività (anche se non è mia intenzione dilungarmi in tecnicismi) cresce in media dell'1 per cento, e anche in questo caso cresce. È più complesso fare un calcolo sull'intero sistema, ma il Governo si sta cimentando anche su tale questione.

Per quanto riguarda le politiche per la famiglia, in un articolo molto interessante uno dei più famosi demografi italiani e mio collega, il professor Massimo Livi Bacci, poneva l'accento sulla necessità di fare di più per la famiglia. Sono sicuramente d'accordo con lui in questa valutazione; però, rispetto ad incentivi a margine per ogni nuovo nato (il famoso bonus per il figlio in più, che lui stesso menzionava ed invocava), una certezza sulla struttura delle deduzioni per i figli a carico (non al momento della nascita, ma fino a quando restano a carico) è, a mio parere, uno strumento di sostegno alle famiglie migliore di un incentivo una tantum per ogni nuovo figlio, anche perché l'ammontare dei bonus non mi pare tale da determinare scelte demografiche così rilevanti.

Veniamo ora alle imprese. Con l'emendamento prosegue il cammino di progressiva riduzione dell'IRAP avviato dal Governo. La no tax area IRAP sale a 8.000 euro; le imprese (fatto molto importante) non pagheranno più l'IRAP sui ricercatori del settore privato, diventando quindi esenti; il costo del lavoro dagli assunti incrementali (ogni assunto in più) a livello di aziende viene sgravato dall'IRAP e questo beneficio diventa doppio se l'assetto incrementale è nelle aree dell'Obiettivo 1 e dell'Obiettivo 2, cioè nel Mezzogiorno e nelle altre aree sottoutilizzate.

Dal 2001 gli interventi di riduzione dell'IRAP hanno comportato sgravi fiscali per 750 milioni di euro e hanno avvantaggiato oltre 3,2 milioni di imprese e di professionisti; 612.000 imprese e professionisti (il 16 per cento del totale) non pagheranno più questa imposta.

Una parola su un tema che ha suscitato molte discussioni nella giornata di ieri: le addizionali regionali. Sin dal passaggio parlamentare della legge finanziaria alla Camera era stato introdotto il blocco delle addizionali regionali sulle imposte. Nel maxiemendamento presentato al Senato viene ribadito quanto già approvato dalla Commissione bilancio di Montecitorio, vale a dire che il blocco delle addizionali rimane e può essere superato dalle Regioni, come misura dissuasiva, unicamente laddove esse sfondino la spesa sanitaria, che comunque, in assenza di questa norma che ha carattere di responsabilità politica, lo Stato rimborserebbe a piè di lista; quindi, la spesa sarebbe comunque quella, ma c'è, in più, un disincentivo a sfondare.

Per ciò che riguarda il Mezzogiorno e le aree sottosviluppate del Paese, è assicurata, innanzitutto, piena copertura al cofinanziamento nazionale dei fondi comunitari. Già alla Camera era stato risolto il possibile problema del cofinanziamento degli enti locali quando batteva contro il tetto del 2 per cento. È assicurata assoluta continuità e certezza di medio termine alla politica regionale nazionale aggiungendo 8 miliardi di euro per il quadriennio 2005-2008.

La regola del 2 per cento, che si applicava a tutte le voci, è attuata, ma con forte tutela per le risorse per lo sviluppo. In particolare, c'è flessibilità tra i limiti di spesa posti al Fondo aree sottoutilizzate (FAS) - legge-obiettivo - incentivi, così che se le altre linee tirano meno del prestito il FAS può tirare di più. Un tetto applicato in maniera flessibile su più voci ovviamente morde meno - mi si passi l'espressione poco tecnica - di un tetto disaggregato su ogni singolo capitolo.

C'è una nuova tutela normativa al Sud: ricevere il 30 per cento della spesa in conto capitale per rispettare l'impegno con l'Unione Europea. È introdotto - e lo riteniamo un segnale molto importante - un primo passo di fiscalità di vantaggio, con il famoso sgravio dell'IRAP raddoppiato per gli assunti incrementali nelle aree sottoutilizzate. È introdotto, infine, il fondo rotativo di 6 miliardi di euro per gli investimenti, che, come sapete, non è solo per le aree sottoutilizzate, ma anche per la ricerca, l'innovazione e la produttività; quindi, è uno strumento generale.

Richiamato per sommi capi l'impatto finanziario della legge nei suoi grandi saldi, vorrei concludere dando un giudizio economico e politico sul provvedimento nel quadro della politica economica del Governo. Per farlo, ovviamente, si richiede un minimo di prognosi condivisa per poter discutere poi una diagnosi.

Con la creazione della moneta unica europea e con la recente accelerazione repentina di alcuni processi di globalizzazione nel mercato dei prodotti, dei capitali e del lavoro (quando dico recente intendo dire post Seattle, post 2000, quando il processo ha ripreso ad accelerare dopo una stasi), l'Italia, più che in una fase di declino, secondo noi è entrata in una fase di profonda, difficile transizione e si sta liberando delle cattive abitudini, delle tossine economiche accumulate nei precedenti trent'anni.

Per trent'anni il nostro Paese è andato avanti fondandosi su un'alta inflazione, su frequenti svalutazioni della moneta, che consentivano una spinta all'export nel breve periodo, ma ovviamente determinavano un problema finanziario nel medio, sull'accumulazione di debito pubblico e su un eccesso di protezione su tutti i mercati. È una diagnosi, direi, condivisa da tutti; è un problema di storia economica, non di un Governo o di un altro.

In sintesi, rispetto, sta cambiando radicalmente il contesto di politica economica: siamo entrati in un sistema di bassa inflazione e di moneta stabile, un sistema in cui i disavanzi pubblici non sono più ammessi e in cui la globalizzazione e la concorrenza internazionale stanno aprendo a ritmo vertiginoso quasi tutti i mercati dei beni e molti mercati dei servizi.

Adattarsi da un sistema di regolazione di una società ad un altro è difficile, complesso, doloroso. Già oggi la performance economica dell'Italia (crescita ed inflazione, per intenderci) sta tornando verso la media europea.

C'è un indicatore macroeconomico che si chiama - non facciamo ironia sul nome - indice di miseria, risultante dalla somma del tasso di inflazione e del tasso di disoccupazione. Questo indice di miseria (che aveva avuto un massimo superiore al 20 per cento in Italia negli anni in cui l'inflazione era a due cifre) si va riducendo continuamente: nel 2000 era pari a 13, oggi è pari al 10,6 perché la disoccupazione è scesa al livello minimo (8,7) e perché l'inflazione è scesa al livello minimo dal 1999 (1,9).

Il processo di adattamento alle nuove realtà (integrazione europea e globalizzazione) richiede di spingere moltissimo i processi di riforma piuttosto che tenere a bada i sintomi con effimeri aggiustamenti, sussidi o provvidenze che curano e sono lenitivi nel breve termine, ma non affrontano mai il problema.

Credo si debba puntare con decisione alla riduzione strutturale del debito (attraverso, anzitutto, l'avanzo primario, che non basta mai a questi livelli ma va riportato su), ad un aumento del potenziale di crescita (investimenti in capitale umano e Agenda di Lisbona), ad un recupero di efficienza e di competitività delle nostre aziende e ad un aumento di investimenti pubblici.

Questa è la direzione di marcia. La stabilità dei conti - come dicevo prima - è un bene pubblico, in un contesto di globalizzazione finanziaria, perché - ripeto - il 45 per cento del nostro debito è collocato presso i mercati internazionali. Le riforme che impongono la ristrutturazione del sistema industriale, e della sua competitività, sono ugualmente importanti; il mercato dei capitali va sviluppato e tutelato.

Anche qui ieri c'è stata una polemica sul decollo dei fondi pensione integrativi. Avevamo presentato un emendamento in tal senso, che non era coperto, per la Commissione, in maniera convincente; la questione è stata rinviata ad un successivo provvedimento, ma posso garantirvi che, per quel che riguarda il Governo, e me in particolare, il decollo di una previdenza integrativa di mercato permane una evidente priorità.

In questo contesto, abbiamo aperto anche una specie di data room - mi si lasci passare il termine - in cui stiamo mettendo tutte le statistiche disponibili in maniera ordinata, cosicché il Parlamento, le istituzioni internazionali, le agenzie di rating possano avere accesso in tempo reale a tutti i dati che produciamo.

C'è, poi, il problema della competitività. La contrazione della produzione industriale è sotto gli occhi di tutti ed è il vero problema del Paese. Per il comparto manifatturiero, nessuno esita a dire che la recessione non è ancora terminata. Il problema è in parte strutturale e in parte legato al tasso di cambio nominale, che ha subito un apprezzamento che il presidente Trichet, pur nella sua prudenza, ha definito brutale: pensate che dal 2000 ad oggi il tasso di cambio euro-dollaro si è apprezzato del 63 per cento (con un differenziale di inflazione che non ne spiega neanche una Y); l'apprezzamento del tasso di cambio reale non è molto distante.

Economisti della Banca d'Italia, di Confindustria, delle Università hanno riconosciuto che il problema della competitività della nostra industria esiste da almeno quindici anni. Ricordo, peraltro, che la produzione industriale rappresenta soltanto il 20 per cento del prodotto interno lordo e che non è di per sé un indicatore dell'avanzamento di un Paese; anzi, più un Paese è avanzato, più, magari, il settore terziario è avanzato. La questione è che da noi è tutto il sistema ad avere un problema di competitività: lo abbiamo nell'industria, come nei servizi; lo abbiamo nei servizi finanziari, come nella pubblica amministrazione.

È qui che dobbiamo fare lo sforzo più grande, curando le cause e non i sintomi; lo facciamo avendo alle spalle questa legge finanziaria (che, come è ovvio, si occupa di conti) e lo facciamo - mi auguro e immagino da subito - occupandoci di quello che è giusto che uno Stato consideri: anzitutto, cambiare il contesto, ossia le regole in cui gli operatori interagiscono, migliorare dove è necessario il processo di integrazione europea, curare il capitale umano per l'innovazione e le infrastrutture materiali e immateriali.

Ricordo, se mi è concesso, per concludere, una piccola citazione accademica. Adamo Smith, ne "La ricchezza delle nazioni", dopo aver esaminato tutta la parte sul progresso tecnico, nel capitolo intitolato "Disuguaglianze derivanti dagli ordinamenti d'Europa", ricorda che le disuguaglianze tra gli ordinamenti sono uno dei fattori che spiegano maggiormente la diversa ricchezza tra le Nazioni.

Ora, fare riforme in questi campi (lo sappiamo tutti, ma lo dice lo stesso Smith in quello scritto) non è compito semplice per gli ostacoli spesso corporativi che si frappongono al cambiamento. Ma è su questo terreno che si gioca la sfida della nostra competitività e del nostro sviluppo, a cominciare da quindici anni fa, non da oggi.

Per competere, oltre alle regole, occorre riformare il modello di sviluppo e ridurre, noi crediamo, una pervasività dello Stato che fa i conti con una spesa pubblica, un debito pubblico e un attivo dello Stato ancora troppo elevati per un Paese che vuole tornare a crescere.

 

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