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Riforma Moratti: che cosa era, che cosa è

Giacomo Zagardo, Ricercatore ISFOL (Istituto per la Formazione dei Lavoratori), Roma

"Confronti" 1/2007

Che l’attuale governo di centro-sinistra presieduto da Romano Prodi stia cercando, pur senza abrogarla, di demolire la riforma della scuola varata dal governo precedente, la cosiddetta “Riforma Moratti” (legge n. 53 del 2003), non è un mistero per nessuno. Se ne è tra l’altro già più volte scritto su precedenti numeri di Confronti. Stando così le cose diventa più che mai interessante farsi un’idea precisa di quale ne fosse il progetto originario. È questo il tema delle pagine che seguono.

L’impianto della legge n. 53/2003 – un provvedimento che, non va dimenticato, è tuttora in vigore – si fonda, innanzitutto, su tre criteri di fondo:

  • la pari dignità, ossia l’equivalenza formativa tra tutti i percorsi riconosciuti come facenti parte del sistema educativo, specie quelli professionalizzanti;
  • la sussidiarietà, ossia la reale libertà di educazione, anche non governativa, che poggia sulla natura sociale dell’educazione: un’opera da svolgere entro quella società civile e quegli enti maggiormente vicini al cittadino (enti locali e regione) che esprimono e giustificano l’azione dell’apparato statale;
  • il pluralismo educativo, che libera le grandi energie ideali, culturali e pedagogiche presenti nel nostro Paese e può essere attuato da tutti coloro che offrono le garanzie ed i requisiti necessari ad una prestazione “pubblica”.

Tutto questo perché, nella globalizzata società della conoscenza in cui oggi viviamo, una formazione umana che sia di qualità ma anche attenta a non lasciare nessuno indietro , implica un sistema educativo “ricco”, in cui l’istruzione (scolastica) e la formazione (professionale), lo studio ed il lavoro, l’università e la formazione professionale superiore dialoghino e si interconnettano senza preventive gerarchizzazioni, ma su un piano di riconosciuta parità.

Ma la Riforma ha prodotto altri sensibili miglioramenti nel sistema educativo:

l’ampliamento della flessibilità curricolare al 20%, con benefici sia per l’autonomia scolastica che per quelle forme di integrazione con altri mondi (lavoro, formazione professionale ecc) che si rendessero necessarie per potenziare l’offerta formativa della scuola; l’alternanza scuola-lavoro; una rinnovata cura della formazione dei docenti; la costruzione di una mutua fiducia nell’insieme del sistema educativo; la “pronta scolarizzazione”, fondata sullo sviluppo cognitivo nei primi anni di età; la configurazione dei Livelli esenziali delle prestazioni, LEP, intesi come caratteristiche che il sistema dell’offerta dei percorsi di istruzione e formazione professionale deve possedere per consentire anche al proprio interno l’esercizio dei diritti sociali e civili dei cittadini, in particolare quello relativo agli almeno 12 anni di diritto dovere di istruzione e di formazione; il ridimensionamento del peso dei piani di studio nella direzione di uno snellimento del tradizionale enciclopedismo, introdotto più per motivi di cattedre dei docenti che per corrispondere ad autentiche esigenze formative dei discenti; il maggior ruolo dei genitori nell’ambito del governo della scuola; la valutazione quale strumento di misurazione dell’efficacia degli investimenti e delle scelte didattiche di ciascuna scuola.

Il significato della riforma

Il concetto di “pari dignità” introdotto dalla Legge di Riforma 53/2003 porta a distinguere chiaramente il sistema dei percorsi liceali, che svolgono un ruolo propedeutico rispetto all’università, dai percorsi del sistema di istruzione e formazione professionale. I due tipi di percorso, essendo di pari dignità, favoriscono e assicurano per disposizione legislativa la possibilità di passaggio dall’uno all’altro grazie ai Larsa (laboratori per l’approfondimento, il recupero e lo sviluppo degli apprendimenti).

In un’ottica di pari dignità, la già consolidata formazione professionale prevista dalla legge 845/1978 viene trasformata in un vero e proprio sistema dell’istruzione e formazione professionale, pienamente concorrenziale a quello liceale. In questa prospettiva, i percorsi professionali non sono considerati come un semplice anello di congiunzione tra scuola e lavoro, ma come percorsi alternativi a quelli liceali, con un’equivalente identità sotto l’aspetto educativo e culturale. Il corollario di questa nuova concezione della formazione alla professionalità è il superamento di storiche divisioni che hanno sempre impedito la qualità sia della scuola che della formazione professionale ex legge 845/1978. In questo nuovo contesto, non esiste più un tempo della cultura generale e un tempo della cultura professionale, delle discipline comuni e delle discipline di indirizzo, dello studio e del lavoro, delle lezioni e dei laboratori, ma tali polarità debbono risultare sempre integrate e circolari, in nome dell’unità tra azione e riflessione, teoria e pratica, situazioni reali e situazioni artificiali. Il crescente apprezzamento per la componente della cultura professionale dei percorsi formativi e la valorizzazione della cultura del lavoro, del resto, sono orientamenti ampiamente condivisi in sede europea. Nei paesi leader dal punto di vista educativo, come ad esempio la Finlandia, sono state introdotte misure professionalizzanti per favorire l’attrattività di tutti gli studi .

Anche il principio di sussidiarietà orizzontale facilita la buona riuscita delle azioni formative, perché le colloca ai livelli il più possibile prossimi al cittadino, in ossequio all’articolo 5 del trattato dell’Unione Europea e all’art.118 della nostra Costituzione. Stato, Regioni ed enti locali favoriscono, così, l’autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali per lo svolgimento di attività di interesse generale, tra cui l’istruzione e la formazione sono senz’altro principali. Diversamente, una scuola tutta statale, ingessata e uniforme si collocherebbe in naturale antitesi al pluralismo delle istituzioni e delle proposte. Priverebbe di quel valore aggiunto che sono le realtà educative non governative ma ugualmente “pubbliche”, quando altri Paesi del Nord Europa sovvenzionano in egual misura i centri educativi non governativi, come in Finlandia , o provano a ripensare la funzione dello Stato in termini di commissioner più che di provider, come nel Regno Unito . Nella stessa Francia, storicamente depositaria dello statalismo meno dissimulato, autocompreso nel concetto di laicità educativa, si moltiplicano i segni di un mutamento di vedute .

L’adeguamento quantitativo e qualitativo dei percorsi della vecchia formazione professionale ex legge 845/1978, eretta a sistema di istruzione e di formazione professionale con la legge n. 53/2003, si configura, quindi, come possibilità di sviluppo non solo professionale, ma anche e allo stesso tempo culturale ed educativo.

In merito al pluralismo educativo e alla valorizzazione (anche qui con pari dignità rispetto alla scuola statale) di tutti gli enti non statali che presentano i requisiti necessari, emerge l’importanza dei Livelli essenziali delle prestazioni. I LEP sono intesi, nello spirito della legge n. 53, come caratteristiche che il sistema dell’offerta deve possedere per consentire l’esercizio dei diritti sociali e civili dei cittadini. La spendibilità dei titoli di studio sul piano nazionale (e in prospettiva anche europeo) viene definita dal rispetto di quei livelli.

Altri elementi in sintonia europea

L’ampliamento della flessibilità curricolare proposta con il DM 28.12.05, se per un verso conduce a una diminuzione della quota nazionale dei piani di studio, per l’altro rilancia l’autonomia delle scuole, che possono così utilizzare fino al 20% del loro orario obbligatorio per introdurre nuove discipline, accorparne alcune e/o variare il monte ore di alcune a vantaggio di altre. L’autonomia scolastica viene, quindi, rimessa al centro dell’attività progettuale e della responsabilità delle singole istituzioni scolastiche per rispondere in modo più flessibile ed “europeo” alle esigenze di individualizzazione dei percorsi di studio, anche alla luce delle opportunità espresse nei vari contesti territoriali.

Secondo l’art. 18 della legge 196/97, il cosiddetto Pacchetto Treu, i tirocini formativi si dovevano configurare come esperienze formative corredate da un progetto formativo concordato. Essi dovevano mirare ad integrare, attraverso la concreta esperienza lavorativa, le conoscenze acquisite frequentando corsi scolastici, di formazione professionale, universitari e post-universitari. Tali tirocini formativi si erano però di fatto trasformati in semplici strumenti di promozione del mercato e delle politiche attive del lavoro.

Pertanto, in un quadro che aveva deluso le speranze di interazione efficace tra scuola e lavoro, l’alternanza proposta con l’articolo 4 della legge 53/03 e con il D.lgs. 77/205 ha portato, in sintonia con altre esperienze europee , alcuni elementi di novità rispetto al passato:

  • l’individuazione dei fabbisogni (spesso ignorata nel tirocinio);
  • la sostituibilità del tempo passato in formazione aziendale a segmenti del programma scolastico (presente nell’alternanza e non nel tirocinio);
  • lo stretto collegamento tra tirocinio, che può essere sia intermedio che finale, e programma didattico.

È ormai noto a livello europeo che solo grazie all’istruzione e alla formazione di qualità si possono conseguire gli obiettivi di competitività e di crescita economica fissati a Lisbona. Per questo motivo, nel processo avviato della legge 53/2003 e nell’intento di contribuire a costruire una prospettiva di mutua fiducia del sistema educativo dell’istruzione liceale e dell’istruzione e formazione professionale, è stata formulata dai principali Enti di Formazione e dall’Isfol, una proposta di Carta Qualità della formazione professionale iniziale, che individuava alcune caratteristiche di base, dalle quali non potessero prescindere le attività formative realizzate nei percorsi di istruzione e formazione professionale di qualsiasi Regione. La Carta costituisce a tutt’oggi un manifesto che delinea i requisiti essenziali di una moderna e qualificata formazione professionale, utili agli stessi soggetti attuatori, che dovrebbero impegnarsi a realizzare nelle attività formative i requisiti di qualità dichiarati, in coerenza con gli obiettivi e gli standard nazionali ed europei.

Nella relazione del Consiglio Istruzione al Consiglio europeo sugli “Obiettivi concreti futuri dei sistemi d’istruzione e formazione” si afferma che la migliore qualità dei sistemi educativi europei passerà attraverso la qualità della formazione degli insegnanti. In tale prospettiva, si è mosso anche il nostro Paese con il D.lgs 227/2005, che ha introdotto l’obbligatorietà di un’apposita laurea specialistica, successiva alla laurea, per tutti gli insegnanti di ogni ordine e grado. Con esso si è messo l’accento sull’importanza di un’adeguata formazione iniziale ed in carriera dei docenti, in linea con gli sforzi che si stanno compiendo in tal senso in altri Paesi europei, come Francia , Regno Unito e Finlandia .

L’anticipo a 5 anni e mezzo dell’entrata a scuola dei bambini italiani (sono oggi il 10% sul totale degli alunni iscritti al primo anno) ha suscitato un ampio dibattito, quando nel resto d’Europa già da tempo si presentavano due differenti orientamenti: pronto anticipo e accesso tradizionale . Va, tuttavia, considerato il vantaggio, al termine del percorso educativo, del primo inserimento nel mercato del lavoro europeo che, ad esempio, per gli inglesi (che, comunque, hanno un sistema educativo più “corto”) e i francesi si collocherebbe già a 18 anni. Quest’orientamento all’anticipo, dunque, non va valutato soltanto per gli effetti immediati, ma soprattutto per quelli di lungo periodo, ossia per gli effetti positivi che può avere su un rapido accesso all’università e alla istruzione e formazione professionale superiore. In quest’ottica, vanno valutati positivamente nel nostro Paese anche i percorsi triennali di istruzione e formazione professionale, successivi al primo ciclo di istruzione, che permetterebbero l’ottenimento di qualifiche professionali spendibili nel mercato del lavoro nazionale (che già li richiede) ed europeo, già a partire, nei casi di percorsi formativi regolari e di eccellenza, dall’età di 17 anni.

Il contrastato D.lgs 226/2005 è andato nella direzione (sia pure con molte mediazioni di tipo corporativistico che si sono rivelate insuperabili) di uno snellimento generale dei piani di studio e di un ridimensionamento delle ore annuali complessive di lezione. È questo il giusto orientamento? Le migliori esperienze di altri sistemi educativi dovrebbero convincerci che alleggerire un percorso in termini di ore d’aula non significa sempre incidere negativamente sulla sua caratura culturale e formativa, quando le condizioni al contorno in termini di servizi sono favorevoli.

Le ore che gli allievi finlandesi passano a scuola a studiare sono in media inferiori a quelle trascorse sui banchi dai coetanei francesi, inglesi, spagnoli e italiani, e minore è la quantità di tempo dedicata ai compiti. Per contro gli esiti OCSE-PISA 2003 ci confermano l’alta collocazione dei risultati dei quindicenni nella competenza matematica (2° posto della Finlandia e 31° dell’Italia), nella competenza letteraria (1° posto della Finlandia e 29° dell’Italia), nella competenza scientifica (1° posto della Finlandia e 27° dell’Italia) e nella capacità di problem solving (3° posto della Finlandia e 31° dell’Italia). I giovani finlandesi dai 7 ai 15 anni passano solo 6.126 ore tra i banchi, contro le 7.731 ore degli spagnoli e le quasi 8.000 ore degli italiani. Un quindicenne finlandese passa in media mezz’ora al giorno a fare i compiti a casa mentre un coetaneo inglese può impiegare per lo stesso motivo fino a due ore del suo tempo.

Quale il segreto? È noto che la Finlandia abbia puntato sulla promozione di alcuni ambiti che incidono sull’efficacia dell’educazione. Il primo è il subsistema familiare che, in particolare in Finlandia, riceve numerosi aiuti per armonizzare la vita di lavoro con quella familiare. Il secondo ambito è il subsistema socio-culturale che potenzia la dimensione educativa da parte di istituzioni sociali e culturali (tra le quali le biblioteche e i servizi connessi). Il terzo ambito è strettamente scolastico-formativo (subsistema scolastico), con la presenza di metodologie e obiettivi adeguati.

All’interno della più ampia Riforma del sistema educativo si collocava anche la proposta di legge di riforma degli organi collegiali interni alla scuola. Essa mirava ad introdurre la pariteticità tra docenti e genitori nell’ambito di un Consiglio della scuola presieduto dal Capo di istituto. Il concetto di pariteticità che potrebbe essere considerata una proiezione a dir poco “giacobina” nel mondo della scuola italiana, in realtà, è inserito pienamente tra gli orientamenti presenti in altre nazioni europee.

In tal senso le novità più rilevanti provengono, forse, dal Regno Unito dove la libera scelta dei genitori, sostenuta da prospetti informativi di rendimento delle scuole (tuttora motivo di ampio e fruttuoso dibattito), costituirebbe una leva per spronare le scuole più deboli a migliorare i risultati. L’introduzione di una forma di concorrenza guidata tra ambito governativo e non governativo è confermata dalle parole del Primo Ministro Blair: “Ci sono restrizioni economiche per famiglie di livello sociale povero o medio che non hanno i mezzi per scegliere un’istruzione non governativa o riscriversi in una buona scuola se sono disillusi da quello che lo stato offre. Noi crediamo che i genitori dovrebbero avere un potere di indirizzo più grande per guidare il nuovo sistema”. In tal modo il sistema sarebbe guidato sempre più dai genitori e dalle loro scelte (“increasingly driven by parents and by chiose ”) e ogni genitore verrebbe coinvolto attraverso un “patto” con la scuola per la formazione dei figli.

Lo sviluppo dell’Istruzione e Formazione professionale

Nel Rapporto Isfol 2006 si legge che tutti i principali dati riferiti all’education e alle politiche ad essa integrate, perseguite attraverso la legge di Riforma 53/2003 sono positivi dal 2001: numero di iscritti alla scuola secondaria (+6%), con un tasso di scolarità che ora tocca il 92,3%; crescita del tasso di maturità (+4,2%); diminuzione degli abbandoni scolastici e formativi (-5,3%).

In particolare, nel 2004/5 gli iscritti ai percorsi triennali di istruzione e formazione professionale iniziale sono stati 72.000, quando erano solo 25.000 l’anno precedente e saranno più di 92.000 nel 2006/07. Rappresentano, ormai, 7 ragazzi su 10 che escono dalla scuola media. Senza riferirsi alle situazioni regionali più critiche, già i dati recenti di una Regione dinamica come le Marche rivelano che il 62% degli studenti degli IPS ha ripetuto l’anno portandosi dietro debiti formativi. Né conforta il livello degli apprendimenti raggiunto dagli studenti quindicenni in Italia, il 23% dei quali non raggiunge il punteggio minimo nei test internazionali di abilità di lettura (livello 1 del Pisa).

Dalle comparazioni dell’Isfol sembrerebbe risultare, in generale, una maggiore tenuta di sistema (e di percorso) nelle tipologie che prevedono un numero più consistente di ore di formazione professionale all’interno dei propri percorsi rispetto a quelle integrate con la scuola. Il miglior successo formativo conseguito attraverso i percorsi triennali di istruzione e formazione professionale, nonostante la provenienza sociale e scolastica dei ragazzi frequentanti, potrebbe far riflettere.

Sarebbe un errore estinguere questo patrimonio di ricchezza formativa, ormai parte essenziale di un ecosistema educativo. Sarebbe un errore azzoppare il sistema di IFP quando altri paesi europei, già da tempo, hanno dato gambe alla VET.

Il nuovo sistema

In questo contesto, il ritorno del concetto di “obbligo di istruzione a 16 anni”, introdotto con la legge Finanziaria, invece di produrre un avanzamento dei livelli qualitativi della formazione di ciascuno, rischia di rivelarsi un pericoloso boomerang se si confermano le spinte stataliste latenti nella compagine di governo. E questo non solo perché nei 12 anni di diritto-dovere introdotti dalla legge n. 53/2003 era stato sanzionato il principio che l’istruzione e/o la formazione obbligatoria dovessero giungere almeno a 18 anni, ma per il fatto che, in questo modo, si reintegra quell’idea di impari dignità tra percorsi di istruzione scolastica e percorsi di istruzione e formazione professionale che era stato uno dei più rilevanti atout della legge 53/2003. D’altra parte, è sintomatico il fatto che molti paesi, nei quali la conclusione della formazione obbligatoria è a 16 anni, stiano seriamente pensando a forme di differenziazione dell’unitarietà dei percorsi (vedi Francia e Regno Unito). Tra gli obiettivi fondamentali su cui è stato impostato il noto documento Tomlinson per la riforma della fascia 14-19 anni del sistema educativo inglese, infatti, ha avuto particolare rilievo quello di “avviare apprendimenti di tipo professionale fin dai 14 anni”, prima cioè della conclusione della scuola dell'obbligo. Ciò non confligge con la necessità di “garantire a tutti le competenze essenziali”, che consentono positivo inserimento nel lavoro e apprendimento per tutta la vita.

Più ancora, in Francia, le recenti novità del sistema si concretano nel diversificare i percorsi scolastici all’interno del collège unique per favorire il successo scolastico e limitare gli abbandoni . È stato richiesto l’inserimento di più opzioni nell’ultimo periodo del collège unique, in modo da rispondere meglio e più precocemente alle vocazioni di buona parte degli studenti. È stato detto che il collegio unico ha cristallizzato i ritardi scolastici prefigurando una “marginalisation progressive des élèves”, mentre “plus du tiers des collégiens déclarent s'ennuyer en classe” e il 62 % degli insegnanti “ne croient plus au collège unique pour corriger les inégalités”. Sulla stessa linea, il Ministro dell’Educazione ha affermato che “Il nuovo modello manterrà legami con il collège perché la scelta di un quattordicenne non è irreversibile anche se, naturalmente, dovrà garantire l’acquisizione di uno zoccolo comune di conoscenze” .

Se si tesaurizzano tutti gli elementi menzionati nelle pagine che precedono, risulta a maggior ragione difficile sostenere qualsiasi recupero dell’ipotesi del “7+5” della Riforma Berlinguer. Non solo perché, ormai, si tratta di un’ipotesi che appartiene al passato (anche per la sua inapplicabilità organizzativa e istituzionale: si ricordi la cosiddetta “onda anomala”), ma anche perché essa comporta rischi così evidenti di omologazione da presentarsi in controtendenza con le politiche formative europee.

Sul biennio (l’aggettivo “unitario” non è più in Finanziaria) l’incertezza è grande. La domanda è: potranno convivere biennio e percorsi triennali di istruzione e formazione professionale per assicurare un’offerta varia e pluralista? Si mira a creare percorsi di istruzione e formazione di secondo livello europeo che al contempo permettano di assolvere all’obbligo di istruzione e di raccordarsi a livelli superiori di formazione? E già si suggerisce che i nuovi bienni siano dotati per le competenze di base di una “trasversalità” o “percorribilità orizzontale” avvicinabile a quella dello “socle commun” francese o del “core curriculum” inglese. Sarà, questo, concretamente realizzabile? Alla scarsa luce di quanto confusamente appare nella finanziaria, è più facile che il biennio significhi, in ultima analisi, un’integrazione tra scuola e vecchia formazione professionale ex legge 845/1978 per uno o più anni, secondo il modello emiliano-romagnolo , insistendo sull’opzione di “accanimento scolastico” quando già un’indagine del 2003 rilevava che quasi la metà degli iscritti ai corsi di formazione professionale in obbligo formativo provenivano dalla scuola (sempre uguale negli accessi e selettiva negli esiti) per insuccesso, ovvero dopo aver tentato quel percorso senza riuscirvi. Dimostrazione chiara che nel nostro Paese la formazione professionale ha affiancato, e spesso sostituito, la scuola nell’opera di contrasto agli abbandoni.

Nella recente Finanziaria, sebbene possa essere giudicata positivamente la transitorietà dei percorsi triennali di istruzione e formazione professionale, nelle more che si realizzi una revisione dei criteri di qualità che “poti” e rilanci il settore, la buona formazione professionale rischia di rimanere soltanto un ripiego: uno strumento depotenziato e ridotto nella sua mission educatrice (per la quale dovrebbe essere invece promossa e non ostracizzata nei tempi in cui viviamo), ma ancora utilizzabile per “arricchire” modestamente il percorso scolastico del biennio, in una dimensione laboratoriale e a servizio di una scuola (extra schola nulla salus) che è agli ultimi posti nelle valutazioni internazionali. Dovrebbe dare in un anno la qualifica (che secondo la legge 53 coronava un processo formativo organico ed omogeneo lungo tre anni), assumendo come credito il percorso fatto nelle istituzioni scolastiche. Quanto lontano risultano quei modelli educativi di formazione professionale robusta, e tra essi quello finlandese (VET allo stesso modo sia governativa che non ), per il quale la qualifica normalmente richiede tre anni di studi omogenei e più di 1.800 ore all’anno di work load (che comprende il lavoro personale).

Questa concreta preoccupazione sul probabile “pensionamento” dei percorsi triennali di istruzione e formazione professionale è data dal fatto che, nonostante le intenzioni dichiarate, e senza bisogno di fare elaborate esegesi sul testo della Finanziaria, non si possa definire un percorso a livello statale senza concedere adeguate risorse economiche alle Regioni. Queste ultime sono competenti costituzionalmente, oltre che istituzionalmente, in materia di istruzione e formazione professionale ma non sono certamente in grado di sostenerne il peso in assenza, oramai, dei consistenti finanziamenti del FSE. Non si può certo pensare di normare a livello statale un percorso unitario che rispetti le vocazioni territoriali orientate alla formazione professionale e non dare loro pari dignità anche dal punto di vista economico. Il che equivarrebbe ad un’eutanasia più che ad una ricerca delle condizioni per far vivere ed operare le forze sane del nostro sistema educativo, capaci di contrastare efficacemente la dispersione. Nella migliore delle ipotesi le regioni meno ricche di un Italia che è inevitabilmente troppo “lunga”, in particolare quelle del Sud, sarebbero costrette ad offrire ai loro ragazzi un menù meno variato.

Un ultimo elemento riguarda la valutazione. In Italia non ha tradizione la pratica della valutazione della funzionalità del sistema educativo. La legge n. 53/2003 aveva tentato di sopperire a queste carenze storiche con l’istituzione del Servizio Nazionale di Valutazione, all’interno del quale doveva operare l’INVALSI. La legge aveva previsto sia una valutazione di sistema, sia una valutazione universale degli apprendimenti, condotta ogni biennio. Si sarebbe finalmente potuto conoscere, per esempio, se la formula organizzativa della scuola che conosciamo (le discipline separate, gli orari separati, la rigidità dell’orario, il modello ‘cellulare’ delle classi ecc.) sarebbe stata correlata a migliori o peggiori apprendimenti degli studenti che frequentano i percorsi di istruzione e formazione professionale, organizzati su paradigmi opposti a quelli scolastici (i compiti, i problemi e i progetti al posto delle discipline, l’orario flessibile e mirato, l’unità di cultura generale e professionale ecc.). Finalmente si sarebbe potuto condurre un discorso non ideologico, ma empirico, sul biennio, sulla pari dignità dei sistemi, sull’efficacia o meno della sussidiarietà, sull’accreditamento e così via. E si sarebbero potute predisporre le azioni di sostegno o di correzione delle strategie messe in campo. Se non si fosse interrotto questo cammino, molti dei problemi discussi in queste pagine, avrebbero di certo trovato una soluzione; e alcune scelte, come quella del biennio di istruzione, avrebbero potuto essere valutate con maggiore attenzione agli scenari europei consolidati e possibili.

Pur essendo ancora sostanzialmente valida nel suo impianto, la Riforma Moratti potrebbe, tuttavia, essere migliorata innanzitutto:

  • frenando la deriva licealistica degli istituti tecnici, introdotta su spinta sindacale nel d.legs. n. 226/05, per impostare un’offerta formativa di istruzione e formazione professionale maggiormente coerente con la varietà delle scelte dei destinatari;
  • introducendo una governance degli istituti autonomi che garantisca una reale gestione delle risorse finanziarie e delle risorse umane (reclutamento diretto dei docenti) e puntando alla diversificazione delle figure e dei contratti (carriera);
  • garantendo in modo stabile la presenza di risorse finanziarie adeguate con una razionalizzazione dell’uso dei fondi e con procedure di riparto delle risorse commisurate al numero effettivo degli allievi iscritti (quota capitaria) per tutte le istituzioni scolastiche e formative accreditate in ambito regionale.